Lettera del Capocorso in occasione del Cinquantennale

ALLO SPARVIERO II

Carissimi amici miei,

esplose la gioia a Roma come si sparse la notizia che la guerra contro l’Egitto dei Tolomei era vinta, con il suicidio di Antonio e Cleopatra, già sconfitti poco tempo prima sul mare. L’egemonia dei discendenti di Romolo non era più a rischio e poteva iniziare l’età della pax romana. La notizia fu portata in città da Marco Tullio Cicerone, figlio dell’omonimo illustre oratore, che anni prima era stato assassinato dai sicari di Antonio.

Correva l’autunno del 30 avanti Cristo e la lieta novella potrebbe essere giunta nella città negli ultimi giorni di ottobre, magari proprio il 26, genetliaco del nostro Corso.

Orazio, travolto dall’entusiasmo, nella sua famosa ode dedicata a quella preziosa vittoria, verseggiò con impeto: “ Nunc est bibendum, nunc pede libero pulsanda tellus…” e più avanti, orgogliosamente, raffigurò Ottaviano che implacabile incalzava la sconfitta regina come lo Sparviero fa con le tenere colombe (Accipiter velut mollis columbas).

Chi decise nel 1937 di battezzare il quindicesimo corso della Regia Accademia Aeronautica con il nome del rapace, che i latini chiamavano accipiter, si proponeva di forgiare una generazione di baldi aviatori, determinati a difendere dal cielo la pace e la libertà della patria. Mai avrebbe però potuto immaginare, mentre apriva le porte della regia di Caserta agli allievi dello Sparviero, che quei giovani avrebbero davvero difeso con coraggio la patria in guerra e che la gran parte di loro, sprezzando il pericolo, avrebbe immolato la propria gioventù, onorando con il sangue il giuramento di fedeltà al popolo e allo stato d’Italia.

Così come fu in quegli anni di guerra, sia anche ora e per sempre, onore e gloria ai caduti dello Sparviero.

Voltata la pagina, Accipiter Velut fu assegnato anche alla banda di giovanotti che il 26 ottobre del 1957, superate le prove d’ammissione e l’asiatica, si guadagnarono l’accesso all’Accademia Aeronautica di Nisida, dando vita allo Sparviero 2°.

Da allora ad oggi sono trascorsi cinquanta anni, oppure soltanto dieci lustri, o meglio appena mezzo secolo.  Sia come sia, i nostri capelli sono nivei, le coscienze tranquille e, grazie al Signore, in buon numero siamo ancora sotto i raggi del sole.

Ora, cari amici, parafrasando l’antico vate, per noi “ è tempo di bere, di ballare, battendo i piedi liberi sulla terra” e di ringraziare la provvidenza, perché noi siamo lo Sparviero 2°, vittoriosi nella vita a capo di cinquanta anni di travagli, delusioni, dolori, ma anche di gioie e soddisfazioni.

Vi confesso che amo il mio Corso, perché è un insieme di persone, che fin dal primo giorno se le sono dette e cantate in faccia, con cruda e talvolta sfrontata lealtà, ma sempre con una vena di umano affetto. Amo il nostro Corso, perché nessuno ha mai nascosto il suo carattere, la propria indole allegra, o triste, o litigiosa. Amo quei rompiballe degli sparvieri secondi, che nelle contingenze della vita mai a nessuno sono stati secondi per generosità e solidarietà. Amo il mio Corso, perché in cinquanta anni talvolta si è disunito, altre volte si è stretto a falange ed ha mandato nell’Avvaffaghanistan quelli di sopra e quelli di sotto, senza guardare in faccia nessuno, così come avviene nelle migliori e nelle peggiori famiglie. Amo lo Sparviero 2°, perché riottoso agli ordini e all’osservanza pedissequa delle consuetudini non fece, nel tempo comandato, il “libro del Mak  P.100”.  Amo lo Sparviero 2°,  perché  adesso, trascorso mezzo secolo, vuole fare quel libro o un suo surrogato, mentre gli altri, quelli dei corsi obbedienti, rileggono il loro con le pagine arricciate ad orecchio, ingiallite e polverose.

Insomma, amo il nostro Corso, perché è la mia seconda famiglia.

Ognuno di noi possiede e custodisce in sé una molecola dell’identità collettiva dello Sparviero 2°, la quale resiste e resisterà al trascorrere del tempo, per divenire imperitura come è avvenuto per quella dei nostri colleghi, che hanno già attraversato il portale della vita.

A loro spetta la nostra riconoscenza e l’onore del nostro fraterno affetto, mentre la magia del ricordo li riporta in mezzo a noi più giovani e più forti, perché la memoria di loro, che è anche la nostra, trasforma il nostro gruppo nell’unico irripetibile Sparviero 2°.

A Palazzo Aeronautica, voluto ed eretto per merito del nostro padre fondatore, il Maresciallo dell’Aria Italo BALBO, nei locali sotterranei sono sopravvissuti due stupendi dipinti murali a tempera, opera dell’impareggiabile Marcello Dudovich.

Essi sono visibili, ancora oggi, sulle pareti di un’angusta stanzetta, dove corre voce si appartasse, di tanto in tanto, il fondatore della nostra Arma Azzurra.

La scena del primo dipinto è dominata da un ammasso di alte e torreggianti nuvole, che si apre al centro, per lasciare intravedere, più in basso verso la terra, uno squarcio di cielo azzurro, come una porta di casa, spalancata in attesa dei suoi padroni. Alcuni avieri si danno da fare intorno ad un paiolo per preparare il desinare, al fuoco di una manciata di stelle rilucenti. Attendono nuovi commensali. Poco discosto, un terzo, comodamente seduto sulla vetta di un cumulo sta spennando un’aquila appena catturata, mentre altre svolazzano atterrite in lontananza. Il cielo ha nuovi signori: “I piloti della Regia Aeronautica”

La scena del secondo dipinto utilizza di nuovo le nuvole per rappresentare la vita dei piloti. I vapori sono scuri e inquieti. Appaiono più chiari solo al centro della raffigurazione e, dove si diradano, il cielo è notturno, appena illuminato da una falce di luna calante, che s’intravede nell’angolo inferiore destro del dipinto. Elegantemente vestiti due piloti giocano a scacchi. Un terzo, avvolto in una mantella nera e in piedi alle spalle di uno dei due giocatori, osserva attento. Al loro fianco, su un tavolino affondato nei vapori, s’intravede un giornale, dove troneggia in grassetto il nome della Patria: Italia. Il centro del murale mostra gli impennaggi tricolori di un aereo in ripida salita. Da uno squarcio, che sembra spingersi oltre il dipinto, scende da un’altezza mai raggiungibile un fascio di luce, che inatteso rischiara la sommità destra della composizione. Verso quella luce, che rassicura, si dirige deciso un aviatore, che tranquillo abbandona dopo aver compiuto la sua ultima missione.

Il capolavoro, sopravvissuto al furore dell’iconoclastia antifascista, riflette la filosofia e la poesia di tempi eroici oramai lontani, ma è sempre dolce e confortante l’idea di un “paradiso dei piloti”, riservato ai nostri caduti. Di loro vi voglio parlare, seguendo l’emozione dei ricordi e badando al cuore, senza curarmi della cronologia e dell’ordine alfabetico.

È confortante immaginare che da quelle parti sia passato il nostro Giulio Castellani,  che fu il primo a ricevere la chiamata. Era mite e gentile con tutti. Aveva gli occhi del colore del cielo e possedeva una mano impareggiabile nel disegno. Con pochi e decisi tratti di matita mostrava il carattere del soggetto scelto, oppure coglieva il lato umoristico dei nostri primi giorni d’Accademia.

A lui, che sicuramente in seguito si lasciò catturare dal fascio di luce, diede il cambio, Alberto Pettenati. Era un giovane di bei modi, di eleganza anglosassone. Carnagione chiara, occhi azzurri. Ottimo negli studi e nel volo. Veniva da Carpi, una ricca e bella cittadina dell’Emilia Romagna, dove in quegli anni erano innumerevoli le occasioni di sistemazione per un giovane volenteroso e dabbene. Alberto però preferì la vita aeronautica e il destino con lui fu particolarmente crudele, perché nel giorno del suo appuntamento con il “paradiso dei piloti”, gli negò nell’ultimo volo di vedere il cielo azzurro, che forse ammirò un’ultima volta voltandosi in dietro e guardando in basso, verso la terra, prima di entrare nel fascio di luce, dove era atteso.

Luigi Avvisati, anche lui fu strappato alla vita dalla nostra sorella oscura, che nel suo giorno allungò la sua ossuta mano verso il cielo.

Il destino è stato crudele e invidioso anche del piccolo e biondo Roberto Angeleri, che legava con Alberto Pettenati e anche con me. Il suo nome era nelle prime pagine dell’imperscrutabile libro del fato.

Danilo Canova scese a Nisida da Milano e, fra i tanti del corso, subito s’impose per l’eleganza del portamento e i tratti gentili della persona. Era simpatico a tutti e, in particolare, alle partenopee. Aveva quel certo “appeal”, che distingue le persone di successo, tali anche per intelligenza, cultura e abilità professionale. La sorte, misteriosa, imperscrutabile e, per questo, malvagia, era in agguato anche per lui e lo strappò ai suoi e allo Sparviero2°.

Antonio Andreetta, alto e robusto come si conviene ad ogni buon veneto, era animato da una volontà ferrea e da un’intelligenza decisa, pronta e instancabile. Anche lui passò di certo per il paradiso dei piloti e, prima di farsi attrarre dalla luce, ne sono convinto, si lasciò andare e si giocò una partita a scacchi. E sicuramente la vinse.

Giuseppe Da Campo e Giancarlo Della Valle, per loro il destino scelse di accomunarli usando la stessa trappola: il tradimento della macchina. Il primo per la passione del volo fece il “diavolo a quattro” e, dopo averlo così vinto, approdò trionfante sulla linea degli aviogetti; il secondo invece vi ebbe facile accesso per naturale slancio. Erano fatti così. Mettevano il volo prima di ogni altro interesse, a differenza dei giovani delle generazioni successive, che per mia personale esperienza ho visto spesso preferire le basse velocità alle entusiasmanti gare con il dio del suono. 

Nel Corso, il romano per eccellenza, non alto, ma molto robusto, era Giuseppe Ponteri. Rado di capelli, io credo, per eccesso d’intelligenza e volontà. Sorrideva raramente, ma studiava sempre. Non ho mai visto nessuno impegnarsi, in ogni intrapresa azione, con altrettanta bravura e volontà. Forse aveva la serietà e la forza di carattere, che resero invincibili i legionari di Roma. Il destino gli fu subito avverso. I tempi a venire non avrebbero avuto alcuno spazio per uomini di così serio stampo.

Francis Fiacchino era un predestinato per il volo. Allora si affermava che la passione per gli aeroplani l’avesse ereditata dal padre, ufficiale pilota della Regia Aeronautica. Oggi avremmo sostenuto che il genoma del volo era nel suo DNA. Di sicuro c’è che egli preferì arrivare in pista seguendo la scorciatoia del complemento. La guerra aveva risparmiato il suo papà, che onorevolmente aveva militato anche nell’Aeronautica della RSI. La pace, invece, sconfisse il nostro Fiacchino,  strappandogli le ali, come Elios fece con Icaro nel verde della giovinezza.

Piero Franzoni era il classico uomo tranquillo. Posato e calmo, ma in possesso di un inatteso “sense of humor”. Volle fortissimamente provare l’ebbrezza del “volar avanti al suono”. E vi riuscì. Dovette, però, pagare, ne sono convinto, lo scotto all’hybris greca, voglio dire all’invidia deorum, che da sempre si accanisce contro gli eroi e gli uomini dabbene. Anche egli si prese la rivincita ed un  suo erede, oggi ingegnere, onora il padre per le vie del mondo.

Mario Storello, che l’Alfieri avrebbe chiamato allobrogo, aveva lasciato le file del nostro Corso, ma dello Sparviero aveva il marchio. Si sentiva e lo sentivamo nostro, per sempre. Non potevo tradire il suo ricordo, ignorandolo, come lo tradì invece l’aviogetto in decollo dal bel suolo di Sardegna, che con il suo Piemonte è alle radici dell’Italia risorgimentale.

Carissimi amici miei, il destino è come lo spartiacque, vale a dire quel tratto lineare ideale, proposto dai geografi, che corre sulla cresta dei monti, per separare i loro due versanti sui quali poi discendono distinte le acque sorgive e piovane. Così definito, lo spartiacque appare equo e giusto. Invece, quando venti e precipitazioni, provenienti da settentrione, si avventano sul versante settentrionale delle Alpi, a meridione dello spartiacque l’alta Lombardia è sotto un cielo limpido e l’aria è intiepidita dalle folate del favonio o fohn.  Poi, la gelida massa d’aria fredda scavalca l’alta catena dei monti e la temperatura precipita anche a valle. Voglio affermare che senza scampo noi soggiacciamo all’imperio del fato. Siamo però uomini.

Ed io insisto nel mio intrapreso dire, per tenere accesa la luce del ricordo, perché è sacra la memoria di chi non è più con noi. Il ricordo degli scomparsi ci distingue e ci conferma nella nostra identità.

Giangiuseppe Girmenia era il gigante buono del Corso. Per noi da subito fu solo e sempre Nanni. L’eroe dei “Ludi sportivi” era ben voluto e stimato da tutti. Con lui, nella prima metà degli anni novanta del secolo scorso, nella quiete quasi virgiliana dell’aeroporto di Guidonia, ho chiacchierato a lungo sui giorni e gli anni trascorsi a Nisida. Per me fu una gioia, perché Nanni aveva una parola buona per ogni sparviero. I suoi ricordi non erano infettati dal “buonismo”, scaturivano invece dalla lettura di una fotografia limpida, ritratta dalla sua bontà d’animo e dal sincero apprezzamento di ciascuno di noi. Oltre che atleta, fu un gran pilota e poeta del volo. Gli volevamo davvero tanto bene e se lo meritava.

Roberto Allodi , come Nanni, era un atleta, dotato di straordinaria volontà e vivissimo acume. Preferibilmente taciturno e al massimo di poche parole, quando diceva la sua colpiva immancabilmente nel segno, si trattasse di persone, di fatti o di situazioni. Il suo equilibrio e la sua serenità fanno parte dell’eredità di ricordi che ci ha lasciato.

Samuele Nascetti fu un compagno d’avventura, che si distinse per le sue doti di bolognese. Non avevo mai conosciuto un bolognese, prima di incontrare lui in Accademia. Adesso so perché la sua Bologna è “dotta e grassa” e, al tempo stesso, gioviale, civile e accogliente, nonché sveglia e sempre pronta alla battuta.  Che lui avesse quelle brillanti e irripetibili qualità, lo capii di colpo alla fine del primo anno di studi. Samuele aveva trascorso i tediosi mesi di lezioni e di studi leggendo gialli e dormendo, ogni volta che gli fu possibile, nell’aula di lezioni ad anfiteatro. A me pareva che si svegliasse solo per pungere con le sue improvvise battute, che sempre profferiva con un risolino sarcastico. Ai colleghi e ai professori dimostrò di che pasta era fatto agli esami di fine anno. Superò brillantemente l’ostacolo. Sapeva impiegare bene il suo tempo e non deluse l’Aeronautica, della quale fu un brillante ufficiale.

Luigi Freschi, Achille Tonini e Franco Vardanega,  li voglio ricordare assieme, come se fossero stati i capi equipaggio  di una  formazione di tre aeroplani. Freschi amava scrivere dolcissime poesie alla sua amata moglie. Tonini aveva la bonomia del veneto trapiantato nell’agro pontino, bonificato e dissodato nel “ventennio” che fu. Vardanega era il nostro “cervellone”, giunto a Napoli dal Conero. Non dispiaccia a nessuno, se l’anconetano lo metto a capo della formazione dei tre che vi sto proponendo, perché lo faccio soltanto in onore della sua inesauribile vivacità e dell’entusiasmo con cui sapeva affrontare la vita. Essi vivono nel nostro ricordo e in quello delle loro bellissime famiglie. Servirono l‘Aeronautica e l’Aviazione Civile, vissero per i loro cari e ancora volano alto nel cielo dei piloti.

Vincenzo Pizzutti, Vittorio Marras e Antonio Santoro li contrappongo ai tre colleghi piloti, per ricordare che lo Sparviero  , ove mai ce ne fosse necessità, è stato “outstanding” in terra come in volo.

Pizzutti aveva non solo l’aspetto imponente del nobiluomo dell’Arabia Felix, ma ne possedeva anche il portamento fiero e l’eloquio conciso. Una volta incamminatosi nel suo percorso di carriera, lo affrontò con dedizione e assidua serietà.

Santoro, che per situazione alfabetica fu mio vicino nelle famigerate ore di studio obbligatorio, per me incarnava il matematico puro e lo studioso di fisica. Del matematico aveva anche il carattere. Lo seguivo ammirato dai miei crinali storico- filosofici, nei quali preferivo e ancora preferisco sostare, e vi confesso che spesso e volentieri mi aiutava a risolvere gli enigmi del grande piccolo professor Colucci, consumatore insaziabile di  mentine. Gli piaceva tanto la vita a Milano. Sento la sua mancanza.

Marras condivideva con me le sue radici sarde e divenimmo subito amici. Gioviale e ottimista, era anche molto paziente perché sapeva ascoltarmi, mostrandosi sempre interessato. Anche lui seppe distinguersi negli studi e nel corso della carriera, che fu brillante e sempre in ascesa. Il suo capolavoro è stata la bellissima famiglia che con amore ed entusiasmo seppe mettere su. Aveva fede e fiducia, e sempre fu fedele nell’amicizia.

Lucio Leonessa chiude il mio peregrinare nei ricordi del nostro passato di allievi. Era il “capo corso d’Accademia” e di lui mentre mi avvio a concludere, voglio ravvivare la figura, come se fosse per sempre il comandante di tutti gli equipaggi, il capo della Squadra sparviera .

 Era suo il dovere di abbandonare per ultimo la postazione o la tolda di comando nella ritirata, così come sempre a lui spettava in vita di esporsi per primo nello slancio dell’attacco. E le incombenze di tale dovere Lucio seppe sempre assumersele con generosità ed altruismo. Senza battere ciglio, senza mostrare risentimenti e rancore, accettò di pagare per tutti la “colpa” di non aver pubblicato il fatale librone del Mak P. 100 e con cuore sereno raggiunse il reparto di volo.

Per me Lucio incarna l’immagine della lealtà. Il suo ricordo è quello di un amico veramente dotato, destinato a distinguersi e ad emergere nei frangenti della vita.

Dopo l’Accademia c’incontrammo nel sole di Sicilia. Discese dalle alte quote in quel di Sigonella, dove mi ero rintanato per razzolare a pelo d’acqua nei mari di Ulisse. Io vedevo tutti i giorni navi e sirene. Lucio sfrecciava alto sulla neve dei monti, che ad arco proteggono il nord della penisola.

Con lui il destino volle saldare un conto aperto per un’altra passione, una fatale passione di famiglia per l’alpinismo, e fu come per gli altri un passaggio dello spartiacque, che ci privò anzi tempo di un generoso capo e amico fidato.

Fra poche settimane c’incontreremo a Pozzuoli e con noi saranno presenti anche i camerati che ho voluto prima ricordare. La memoria di loro salderà il presente con il nostro lontano passato comune, che ebbe origine a Nisida.

In quell’isoletta, dove prima della fatale guerra perduta aveva sede anche un idroscalo della Regia Aeronautica, ci aspettava il comandante Giuseppe Rosati, il demiurgo partenopeo dello Sparviero 2°.

Fu lui che trasformò il branco che eravamo in un Corso di allievi brillanti, volenterosi e fidati. Compì la sua opera con accanita perseveranza, nonostante l’ostracismo di chi gli rimproverava il suo passato di guerra, come se fosse una colpa irrimediabile, un marchio inciso sulla fronte da mostrare per essere sempre riconosciuti e restare confinati nel ghetto dei reprobi. Ovviamente, noi eravamo accomunati al nostro Comandante e nonostante avessimo inaugurato la selezione al volo sul velivolo AT6 e iniziato a studiare a gennaio inoltrato, non ci fu riservata alcun’attenzione di riguardo, al contrario subimmo un’orchestrata serie di discriminazioni rispetto ai corsi che ci precedevano e quelli che ci seguirono. Don Peppino seppe infonderci orgoglio, rispetto per le altrui opinioni e una visione della realtà disancorata dalla retorica e dagli infingimenti del perbenismo ipocrita. Ci insegnò il rispetto concreto e ideale per il dovere da compiere con lealtà e altruismo. Tutta la sua azione era sempre accompagnatala da quel sottile atteggiamento ironico e disincantato, che distingue i napoletani dagli altri uomini, rendendoli capaci di superare anche gli ostacoli più impervi, che la vita sempre riserva.

Sotto la guida del suo insegnamento, credo che tutti noi abbiamo imparato a meglio vivere. Soprattutto ci danno fastidio gli steccati, amiamo la pari dignità fra gli uomini, la libertà di pensiero e di parola. Lo Sparviero 2°, dunque, è una sorta di falange spartana, che talvolta si schiera in campo in modo disordinato, discutendo e polemizzando fino all’ultimo istante possibile e che poi d’improvviso tace, si raccoglie e attacca per “combattere e vincere”.

Ecco, amici miei, questo è lo Sparviero che io ho nel mio cuore, con Rosati e Leonessa sempre in testa alla nostra schiera; e ora, nell’attesa d’incontrarvi alla fine del mese, vi saluto tutti con gran calore, augurando a voi e ai vostri cari, ora e sempre, ogni futuro bene.

 

Roma, 10 ottobre 2007                                  Gianni Franco Scano 

                                                  

 

 

 

 

 

 

 

 

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